Cosa significa “Greenwashing”?
In caso di Greenwashing le dichiarazioni di alcune aziende sono volutamente ingannevoli, per preservare la reputazione e distogliere l’attenzione da altre attività, ma una volta scoperte danneggiano la loro credibilità. Molto più spesso però le aziende praticano greenwashing per negligenza e impreparazione. Oppure, il timore dei suoi rischi causa il fenomeno opposto: il green hushing.
Il termine “greenwashing” prende spunto dall’inglese “whitewashing”, che letteralmente significa “dare una mano di bianco”, in questo caso “di verde”.
Fu coniato per la prima volta dall’ambientalista Jay Westerveld, che negli anni ’80 denunciò un hotel delle Fiji per aver incoraggiato il riutilizzo degli asciugamani, apparentemente “per amore dell’ambiente”, ma in realtà per tagliare i costi. Allo stesso tempo, quell’hotel era accusato di espandere in modo aggressivo la propria presenza su un’isola con un ecosistema fragile.
Per brevità, le dichiarazioni ambientali da parte di aziende e istituzioni vengono indicate anche in italiano più comunemente con il termine inglese “green claim”.
Secondo la Commissione Europea, il 53% dei green claim in Europa sono vaghi, ambigui o fuorvianti, il 40% non è supportato da evidenze scientifiche, e uno su due manca di certificazione.
Cosa possono fare le aziende contro il rischio di greenwashing?
Con l’aggravarsi della crisi climatica e la crescente attenzione di consumatori e investitori, il greenwashing è diventato sempre più rilevante, tanto che in Europa, Nord America e Australia vigono delle leggi ad hoc per regolare e sanzionare il fenomeno.
Ai rischi per le aziende già noti, come la reputazione compromessa e la perdita di fiducia da parte di clienti e investitori, si aggiungono processi giudiziari e sanzioni sempre più strutturate.
Di conseguenza, le aziende di tutto il mondo stanno adottando competenze e misure adeguate per comunicare correttamente il loro operato, strutturandosi per le normative attuali e quelle future.
Quando invece, per impreparazione e timore di greenwashing, le aziende temporeggiano e decidono di non parlare di sostenibilità, creano danni a sé stesse e agli altri. Queste aziende infatti:
- Perdono un vantaggio competitivo e l’occasione di essere scelte.
Secondo dati Istat 2023, il 32% degli italiani considera la sostenibilità un fattore molto importante nelle decisioni di acquisto. Questa preferenza sale al 53% tra chi si sente personalmente coinvolto nella cause climatiche e per la sostenibilità. - Alimentano il fenomeno del greenhushing e rallentano l’innovazione di settore.
Secondo il report GreenItaly 2020, solo il 18% delle aziende italiane che hanno ridotto in modo concreto il proprio impatto ambientale ha comunicato queste azioni a clienti, fornitori e partner. Ciò compromette la comparazione tra aziende e la creazione di un circolo virtuoso, e rende più difficile osservare come evolve in tal senso il mercato italiano.
Per sapere come comunicare in modo corretto la sostenibilità in azienda puoi leggere la voce: Green Marketing. Oppure, per una consulenza personalizzata puoi contattarci qui.
Quali sono esempi conclamati di greenwashing?
Per capire meglio il fenomeno, riportiamo 2 esempi di pratiche di greenwashing.
1. Nel Regno Unito, Shell è stata accusata di praticare greenwashing per il numero di messaggi pubblicitari a tema sostenibilità sproporzionato rispetto al suo modello di business.
Shell è uno dei più grandi fornitori di petrolio e gas naturale al mondo.
Nonostante la sua attività principale dipenda ancora dai combustibili fossili, le pubblicità e i canali di comunicazione di Shell raffigurano in modo sproporzionato progetti legati alla transizione verde, con associazioni ambientali positive.
Nel 2023, l’Advertising Standards Authority (ASA), l’organo che regola la pubblicità nel Regno Unito, ha raccolto le segnalazioni di organizzazioni e privati cittadini che indicavano le campagne pubblicitarie di Shell come fuorvianti, ponendo il divieto di continuare a trasmetterle. Sebbene in questo caso Shell non abbia subito una sanzione diretta, ha perso il ritorno sulle risorse di marketing investite. Inoltre, il caso ha creato un precedente legale, portando a possibili sanzioni più severe in futuro, come la Digital Markets, Competition e Consumer Bill, che prevede multe fino al 10% del fatturato globale per violazioni simili.
2. In Italia, l’azienda Miko S.r.l. è stata denunciata da una concorrente per descrivere i suoi prodotti come “sostenibili, riciclabili e amici dell’ambiente” senza il supporto di verifiche.
Il 25 novembre 2021, il Tribunale di Gorizia ha emesso una sentenza storica contro l’azienda Miko S.r.l. per pratiche di greenwashing, diventando il primo caso del genere in Italia. Il tribunale ha stabilito che le affermazioni pubblicitarie di Miko erano fuorvianti, contribuendo a un’immagine ingannevole dell’azienda e dei suoi prodotti. Miko è stata quindi condannata a interrompere immediatamente la diffusione di questi messaggi pubblicitari e a pubblicare l’ordinanza sul proprio sito web per 60 giorni consecutivi. Inoltre, Miko è stata condannata al pagamento delle spese legali.
Per l’osservatorio dell’Università di Pavia e Greenpeace, potrebbero essere tacciate di greenwashing anche le sponsorizzazioni come “official partner” di eventi e iniziative legate alla sostenibilità da parte di aziende che con il loro business provocano danni evidenti all’ambiente.
Per contestare un green claim in Italia, un cittadino, un’impresa o un’associazione a tutela dei consumatori possono fare denuncia all’Autorità garante della concorrenza del mercato (Agcm), instaurare un giudizio civile o segnalare il caso all’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (Iap).
Cosa dicono le direttive europee e la legge italiana sul greenwashing?
Le sentenze di greenwashing sono moltiplicate in tutta Europa e si prevede aumentino ancora, con l’entrata in vigore di 2 direttive dell’Unione Europea che chiariscono il processo per richiamare aziende e istituzioni alle proprie responsabilità.
La Direttiva UE 2024/825 “sui Diritti dei Consumatori nella Transizione Verde” è stata pubblicata a Gennaio 2024 e dovrebbe diventare legge in Italia entro il 2026. Vuole contrastare alcune pratiche commerciali scorrette, tra cui l’obsolescenza tecnologica e il greenwashing. Aggiornando le norme precedenti, la direttiva aumenta la tutela dei consumatori da green claim ingannevoli.
Per le aziende che vendono prodotti, questa direttiva:
1. Impone che le dichiarazioni ambientali siano chiare e complete.
Per esempio sostituendo un claim come “imballaggio sostenibile” con “il 100% dell’energia utilizzata per produrre l’imballaggio proviene da fonti rinnovabili”.
2. Vieta green claim generici come ad esempio “green”, “ecologico”, “sostenibile” etc.
non supportati da certificazioni conformi al regolamento CE 66/2010 EU Ecolabel o alla ISO 14024 (e anche quando vi siano, aggiunge criteri più stringenti).
3. Vieta i termini “Carbon Neutral”, “Net Zero” e sinonimi,
in mancanza di una comprovata strategia di riduzione delle emissioni di gas serra.
La direttiva sui Green Claims ( o green claims directive) è ancora in fase di proposta e si prevede che verrà approvata nel 2025, recepita dagli stati membri a partire dal 2027. Questa direttiva integra quella appena entrata in vigore specificando le modalità in cui le aziende devono dimostrare la veridicità di quello che affermano nei confronti dei consumatori.
In particolare, la GCD vieta l’apposizione di marchi di sostenibilità non basati su sistemi di certificazione riconosciuti o stabiliti dalle autorità pubbliche.
Le etichette “autocertificate” o certificate da società non riconosciute saranno quindi vietate.
Definiti cosa e come possono dichiarare le aziende come green claim, sarà più chiaro per tutti come attuare strategie efficaci di green marketing ed evitare il rischio di greenwashing.
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Fonti citate:
- (Istat, 2023) “Rapporto SDGs 2023”
- (Symbola, 2020) “GreenItaly 2020”
- (Wired, 2021) “Shell ha un problema con la sua storia della benzina a “impatto zero””
- (Iusinitinere, 2021) “Alcantara-Miko: è condanna al Greenwashing”